Intervista: Nikos Salingaros: imperialismo globale e antiarchitettura

dic 29, 2011 1 comments
Intervista di Serena Baldini – www.biourbanistica.com
Artista, fisico nucleare laureato a Stony Brook, matematico (insegna alla University of Texas), Nikos Salingaros è passato per molte vie prima di approdare all’urbanistica e alla critica architettonica, alle quali ha dedicato articoli e saggi importanti, molti dei quali tradotti nelle maggiori lingue moderne, compresi il persiano e il cinese. In italiano: Antiarchitettura e demolizione, e No alle archistar. La prestigiosa rivista Planetizen lo ha classificato all’undicesimo posto fra i 100 più grandi teorici dell’urbanistica di tutti i tempi,1 mentre UTNE Reader lo ha incluso fra «i 50 visionari che stanno cambiando il mondo».2 Personaggio poliedrico e fascinoso, ricco di humour e gentilezza, si occupa oggi soprattutto delle nuove frontiere della progettazione partecipata (peer-to-peer urbanism), e dello sviluppo degli algoritmi alla base dell’architettura “biofilica”, cioè benefica nei confronti dei sistemi neurovegetativi umani e animali. Su questi due argomenti sono in preparazione due libri che usciranno all’inizio del 2012 anche in Italia.
— Prof. Salìngaros, la sua polemica contro il fenomeno delle archistar ha il suo fondamento teorico in una critica generale all’architettura moderna e contemporanea. Può spiegarci cosa c’è che non va con tale architettura? E perché nel suo bersaglio apparentemente lei include, ad es., International Style, Modernismo, Postmoderno, e Decostruttivismo?
Prima di tutto, vorrei correggere un malinteso: cioè, l’uso propagandistico dell’aggettivo «moderno» per uno stile architettonico antiquato e insostenibile. Non è una colpa, ma si tratta di un errore comune che molti accettano senza rendersene conto. Il modernismo dell’International Style non è per niente moderno, è invece testardamente retrogrado contro ogni sviluppo intelligente della progettualità e della creatività umana.
L’architettura contemporanea di moda rappresenta semplicemente una metamorfosi patologica dello stesso modernismo, nel senso che è riuscita a cambiare le forme evitando ogni influenza della possibile adattabilità alla geometria vitale. Lo stile meccanicistico industriale del Modernismo si è così trasformato in Postmodernismo, e poi in Decostruttivismo, senza mai abbandonare i propri principi: la negazione della geometria complessa e coerente delle forme naturali, e soprattutto proprio di quella geometria necessaria agli esseri viventi. Non si può criticare l’assurdo dell’architettura contemporanea di spicco senza accennare alle radici della sua trasgressione.
— Lei ritiene, dunque, che debba esistere una sola architettura, nel senso di stile, di gusto?
Niente affatto. Ritengo che esista una classe di architetture con organizzazione, adattate alla vita umana, accomunate da una complessità tipica dell’algoritmo geometrico che dà loro nascita. Si tratta di un’incredibile, meravigliosa varietà. Alcuni rappresentanti del genere sono le architetture tradizionali riscontrabili nelle grandi costruzioni che accompagnano l’intera storia umana. Altri, sono le architetture più modeste realizzate direttamente da chi le abita, nei villaggi e nelle favelas del mondo. Architetture umane dotate di vita, che non sono riconosciute dall’establishment architettonico come tali, perché demoliscono una grande impostura con la loro stessa esistenza che spira grazia.
La varietà enorme delle progettazioni “a mano”, del vernacolo e del tradizionale, incluse le espressioni architettoniche formali ma radicate nella complessità adattiva, testimoniano il frutto dell’intelligenza e della creatività umana contro lo stile industriale inumano promosso dalla moda architettonica. Quest’ultima è in realtà soltanto una debole e miserabile variazione del vecchio modello industriale degli anni ’20 del secolo scorso. Totalmente privo di vita, e dunque incapace di nutrire la nostra vita.
Per rispondere insomma alla sua domanda: sì, esiste un’ampia classe di architetture umane diverse, anche molto diverse superficialmente, accomunate però da alcune regole precise che sottostanno alla progettazione. Il loro opposto consiste di quegli stili industriali che si oppongono alla geometria frattale, per annichilire ogni traccia di vita; e tra questi vi è tutto ciò che è stato promosso dal secolo XX in avanti, fino alle architetture sterili oggi di moda. La classe computativa di tale “antiarchitettura”, come l’ho definita nei miei scritti, è tutt’affatto diversa da quella che definisce spazi viventi e sostenibili.
— Quale dev’essere il criterio per decidere cosa va bene e cosa non va bene in un’architettura?
C’è un solo criterio: se l’utente avverte un agio fisiologico/psicologico dentro e di fronte all’edificio, abitandovi, lavorandovi. Non è un giudizio basato sulle foto, né sull’ideologia, com’è invece oggi – vergognosamente – quello propagato dagli architetti di professione. Abbiamo cioè a che fare oggi con un fenomeno di sovversione di massa molto inquietante, dove ormai da oltre un secolo gli architetti formati dall’accademia negano le loro stesse reazioni di malessere rispetto agli edifici, per poi lodarli come architettura «buona», soltanto perché corrispondono a un modello visivo «approvato».
Con i miei collaboratori scienziati abbiamo proposto una soglia di complessità nella computazione del disegno architettonico. Per nutrire la neurofisiologia umana, il disegno deve essere il risultato di una serie di calcoli con condizioni molto precise, mai una forma o immagine caduta dall’alto. Un criterio che, benché non garantisca che quell’architettura sarà adattiva, almeno la contraddistingue da ciò che non potrà comunque mai esserlo di principio. Basta uno sguardo per verificare che quasi tutti i progetti promossi delle archistar non sono adeguati, nonostante alcuni clienti spendano fortune per finanziarli.
La nostra società si è completamente separata dalla realtà neurofisiologica. Eppure è tale realtà psicocorporea a dirci, mediante il suo feedback sensoriale, se un ambiente è “nutritivo” o “nocivo”. Il risultato è che molta gente non sa più distinguere tra i due tipi di ambiente. Un secolo di architettura è insomma riuscita a modificare l’essere umano, fino a farne un mostro senza connessione con la propria natura: una pedina robotica, priva di sensibilità rispetto al proprio ambiente. Ed ecco il comportamento contraddittorio di alcuni cittadini «molto alla moda» che elogiano edifici che li fanno star male. Per esempio, vanno a un museo di arte contemporanea, o a un teatro di design, stanno là per un’ora, ne escono psicologicamente malati, ma nonostante tutto, dichiarano che questi edifici sono «geniali».
Il peggio accade quando i nostri politici si fanno esecutori della ideologia nichilista veicolata da tali architetture. È vergognoso che i sindaci di molte bellissime città implorino le archistar di venire a distruggere i patrimoni dei loro centri storici. E lo fanno con orgoglio… Il popolo si accorge della spaventosa mostruosità di certi edifici, certi ponti, certe statue, ma la sua protesta conta poco. Non c’è appello democratico alla fede nei «capolavori architettonici» della presunta èlite. Anche quando queste strutture fanno male alla gente, e addirittura a volte ne feriscono la psiche o il corpo (penso alla sindrome da “edificio malato” o a certi traumi ossei da ponte “artistico”), i politici rimangono sordi all’indignazione popolare, per non contraddire quello che è un autentico potere superiore.
— Il medesimo criterio può essere usato anche per altre discipline? Ad es. l’urbanistica, l’economia, la politica?
Certo che lo stesso criterio si applica all’urbanistica, che non è altro che un’estensione del disegno architettonico a una gamma di scale superiori: dalle scale architettoniche della struttura fisica umana, si passa alle scale urbane del movimento umano. Per una città, si deve avere il diritto fondamentale all’agio di circolare liberalmente a piedi, con il trasporto pubblico, e con l’auto. Si deve garantire la possibilità di svolgere la propria vita quotidiana senza i grandi disagi procurati da progetti urbani stupidi e formalistici.
Per quanto riguarda la politica, mi limito a osservare che oggi abbiamo l’evidenza che il comportamento delle persone in relazione all’architettura inumana offre molti paralleli con il comportamento politico in una società controllata. Invertendo le conclusioni prese dal mondo architettonico, l’icona della politica diventa assai buia. Il sistema governativo è deviato da (e allo stesso tempo, utilizza) una struttura di propaganda. La gente continua a credere e a sostenere i propri manipolatori, un fenomeno che non ha a che fare con la distinzione tradizionale tra destra e sinistra, poiché si applica ovunque. Molti politici, dal livello nazionale a quello del più piccolo paesino, si vendono al sistema di un enorme potere globale/industriale.
— Che tipo di relazione si dà fra capitalismo e stile architettonico?
Non esiste nessuna relazione formale tra un sistema politico o di governo e uno stile architettonico. Oggi edifici giganteschi, progettati dagli stessi architetti di spicco, sono costruiti nel sistema capitalistico europeo e USA, negli stati teocratici arabi, nel sistema post-comunista cinese, e in ogni paese con un governo totalitario dove il «Caro Capo» vuole apparire «contemporaneo». Storicamente, diversi partiti politici hanno adottato uno stile definitivo per la loro piattaforma, ma tale scelta era ideologica, priva di un fondamento realmente architettonico. Per esempio, l’International Style venne adottato in maniera fanatica dai sovietici in nome di un futuro collettivo e della liberazione dell’umanità attraverso l’industria e il progresso; ma anche dai capitalisti, che intendevano invece promuovervi l’industria edilizia, l’immagine nuova di uno sviluppo liberato dai vecchi modelli, e giunsero fino ad organizzare mostre di architettura modernista per… contrastare l’ideologia sovietica.
Identificare l’architettura con la politica non ha senso, ha importanza però il fenomeno generale. Oggi l’architettura nichilista è diventata un’arma dell’imperialismo globale. Non dico «capitalismo» di proposito, per escludere la stragrande maggioranza dell’industria imprenditoriale e del libero commercio a piccola e media scala, che risulta anch’esso minacciato dello stesso imperialismo. Dietro ogni progetto architettonico di un’archistar si trovano i tentacoli delle grandi compagnie del consumo globale. Il risultato è triste: il sacrificio della cultura millenaria dei molti luoghi del mondo sull’altare di una globalizzazione distruttiva.
D’altro canto, incredibilmente, la sinistra appoggia questo meccanismo con tutto il suo cuore. Qualcuno, forse un finto autoproclamato «esperto», ha detto che le archistar rappresentano il pensiero libero, lo sviluppo radicale, la liberazione della società, cioè, le stesse promesse fasulle che hanno condotto i vari stati comunisti a sradicare il loro patrimonio artistico, architettonico e urbano. Così trovo inseriti tra libri e saggi scritti dai filosofi della sinistra che sognano una rivoluzione marxista, immagini di edifici di archistar di moda oggi. I mercenari dell’imperialismo consumistico globale lodati dai comunisti…
— Il neo-capitalismo globale di tipo finanziario, terminato nella grande crisi mondiale che stiamo vivendo, trae origine, se così si può dire, dall’abrogazione da parte del presidente Bill Clinton nel 1999, del Glass-Steagall Act, cioè quella legge che prevedeva la separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Può trovare un parallelo con l’architettura contemporanea, ad es. con la mostra di Philip Johnson nel 1988 a New York, che sancì la nascita del Decostruttivismo?
Non sono un economista e dunque non posso dire niente in merito alla legge di Glass e Steagall, se non che ha cancellato una separazione molto saggia posta in essere anni fa per impedire una sovraconcentrazione del potere finanziario. E, come accade quasi sempre in questi casi dove i nostri predecessori, considerando la fallibilità umana, hanno previsto un futuro pericolo, i due politici avevano ragione. Cancellare la separazione di diverse funzioni finanziarie ha certamente aiutato, se non addirittura condotto, a una corruzione del sistema finanziario, e dunque al collasso economico che vediamo negli ultimi tempi.
Quest’analogia economica serve a sottolineare la corruzione del sistema architettonico che oggi governa il mondo della progettazione e delle costruzioni. Non c’è nessuna separazione tra coloro che producono architettura e coloro che dovrebbero avere la responsabilità di salvaguardare il patrimonio del passato, ad es. garantendo l’adattabilità dei prodotti architettonici e urbani. Messi insieme sono diventati una casta dirigente che si autopromuove vergognosamente. Architetti, studi d’ingegneria edilizia, critici, accademici nelle scuole d’architettura, politici, enti e imprenditori di costruzione partecipano allo stesso gioco, e dalla stessa parte. Non esiste nessuna ragione fondamentale per costruire mostruosità inumane, se non l’influenza dell’ideologia nichilista. Per esempio, l’economia sommersa della malavita che entra in gran parte della costruzione attuale non è legata a uno stile architettonico specifico, e persino essa non trae alcun vantaggio dall’erigere edifici aberranti. Eppure, questa «macchina» sta costruendo in tutto il mondo, utilizzando gli stessi identici modelli architettonici inumani ovunque.
Philip Johnson era un carattere luciferino che aveva ambizioni politiche, e per perseguirle fondò il partito nazi-fascista americano negli anni 1937. Sfumato il sogno di assumere il controllo del governo degli Stati Uniti, si dedicò poi a tessere un sistema di potere alternativo, nell’architettura. La sua lunga vita (è morto a 98 anni) lo ha aiutato a influenzare l’arte del costruire in quasi tutto il mondo per quasi un secolo. Oggi viviamo nell’incubo creato da Johnson, perché quasi tutti i grandi progetti architettonici, ovunque, sono legati in via diretta o indiretta con il gruppo degli architetti decostruttivisti da lui raccolto nel 1988. E la stampa, strumento propagandistico del globalismo consumistico, promuove queste architetture per glorificarne l’ideologia. Il nihilismo filosofico di Johnson è diventato una sorta di religione officiata e diffusa dalle forme degli edifici più à la page in tutto il mondo. Ma quasi nessuno sembra notarlo, perché la gente è intorpidita.
— La soluzione per una progettazione a misura d’essere umano può insegnarci qualcosa per uscire dalla crisi, secondo lei?
Certo che sì. Ambedue i problemi si risolvono con un ritorno alla progettazione e alla vita a scale umane, abbandonando la misura globale/consumistica. Quest’ultima è la conseguenza del potere fuori controllo responsabile della manipolazione della maggioranza del popolo a vantaggio dell’ideologia. La soluzione sta nell’inversione delle scale. Come ha detto il grande economista Fritz Schumacher nel 1973, «Small is Beautiful», piccolo è bello. È molto più difficile manipolare la gente in un sistema dove l’esperienza si ricicla all’interno di cerchi a scala umana, cioè dove vigono una certa autonomia, e un sistema di legami locali e non globali. Sarebbe allora del tutto naturale abbandonare le dittature delle grandi firme edilizie multinazionali che distruggono il patrimonio del territorio, per tornare invece a rivolgersi ai veri bisogni locali.
Io però porrei innanzitutto una questione pratica: data la crisi che hanno contribuito a creare, sopravvivranno o no le grandi firme edilizie legate al sistema consumistico globale che utilizza tipologie e architetti alla moda? Probabilmente no, e il collasso parziale del sistema economico porterà con sé un cambiamento anche in questo settore. Dunque un ritorno all’edilizia a piccola scala, controllata degli utenti stessi, equivarrà a una salvezza. Non perché il mondo si è finalmente svegliato, ma perché non c’è altra possibilità. La morte dei dinosauri su scala globale lascia fiorire le piccole creature. Lo stesso modello si applica anche in modo inverso: cioè, un ritorno all’edilizia a scala umana potrebbe forse salvarci dal collasso globale che sembra essere il destino di questa società cieca.
— Quali sono le sue speranze per il futuro, e per quello dei suoi figli?
Personalmente non nutro alcuna speranza per il futuro. La razza umana si è dimostrata simile alle formiche nel suo comportamento, seguendo dogmatismi distruttivi e capi narcisisti e folli. Più volte siamo andati verso l’autodistruzione parziale, penso ad es. a quella di intere nazioni e civiltà. Non sto parlando soltanto dei grandi dittatori: mi riferisco davvero alle archistar come paradigmi del medesimo profetismo nocivo. Oggi, però, l’economia e la società sono iperconnesse e globalizzate, cioè verso l’autodistruzione ci si va insieme, e nessuno sarà risparmiato. Quando vedo che gli stessi mercenari di un’architettura assurda costruiscono ad Atlanta e Astana, a Beijing e Buenos Aires, a Dubai e a Durban, riscontro la prova che l’infezione ideologica è ormai diffusa in tutto il globo. Non c’è nessun posto dove si possa sfuggirla. I media globali penetrano ogni angolo del pianeta.
Ai miei figli ho provato a insegnare la differenza tra la vita e la morte, tra il genuino e il falso, tra la creazione e la distruzione, tra l’amore per la natura e l’umanità e l’odio che vediamo oggi nelle cosiddette “arti contemporanee”, includendovi design, letteratura, musica, e anche la religione «rinnovata». Almeno imparano cosa sono le vere arti umane del passato, le grandi creazioni della mente attraverso i secoli. Ho provato a insegnar loro a riconoscere un ordine superiore che è l’unico antidoto alla propaganda globale che promuove dogmi e prodotti anti-umani e anti-vita. Ma soprattutto spero di essere riuscito a trasmettere loro il senso della magnifica capacità creativa dell’essere umano, oggi negata e soppressa perché una piccola casta vuole che compriamo tutti gli stessi prodotti industriali, dal cibo, all’arte, alle idee che formano la nostra percezione del mondo.

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