Carlo Levi - Sulla statolatria

lug 4, 2012 0 comments
Già il treno ci riportava, oltre la capitale, verso il sud. Era notte, e non mi riusciva di dormire. Seduto sulla dura panca, andavo ripensando ai giorni passati, a quel senso di estraneità, e alla totale incomprensione dei politici per la vita di quei paesi verso cui mi affrettavo. Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno; a tutti avevo raccontato quello che avevo visto: e, se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Erano uomini di varie opinioni e temperamenti: dagli estremisti più accesi ai più rigidi conservatori. Molti erano uomini di vero ingegno e tutti dicevano di aver meditato sul « problema meridionale » e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Ma così come queste loro formule e schemi, e perfino il linguaggio e le parole usate per esprimerli sarebbero stati incomprensibili all'orecchio dei contadini, così la vita e i bisogni dei contadini erano per essi un mondo chiuso, che neppure si curavano di penetrare. Erano, in fondo, tutti (mi pareva ora di vederlo chiaramente) degli adoratori, più o meno inconsapevoli, dello Stato; degli idolatri che si ignoravano.
Non importava se il loro Stato fosse quello attuale, o quello che vagheggiavano nel futuro: nell'uno e nell'altro caso era lo Stato, inteso come qualcosa di trascendente alle persone e alla vita del popolo; tirannico o paternamente provvidente, dittatoriale o democratico, ma sempre unitario, centralizzato e lontano. Di qui la impossibilità, fra i politici e i miei contadini, di intendere e di essere intesi. Di qui il semplicismo, spesso ammantato di espressioni filosofeggianti, dei politici, e l'astrattezza delle loro soluzioni, non mai aderenti a una realtà viva, ma schematiche, parziali, e così presto invecchiate. Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a tutti il problema meridionale; e, se ora dovevano riproporselo, non sapevano vederlo che in funzione a qualcosa d'altro, alle generiche finzioni mediatrici del partito o della classe, o magari della razza.
Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico, parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria industrializzazione, di colonizzazione interna, o si riferivano ai vecchi programmi socialisti «rifare l'Italia». Altri non vi vedevano che una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitù, che una democrazia liberale avrebbe un po' per volta eliminato. Altri sentenziavano non essere altro, il problema meridionale, che un caso particolare della oppressione capitalistica, che la dittatura del proletariato avrebbe senz'altro risolto. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza, e parlavano del sud come di un peso morto per l'Italia del nord, e studiavano le provvidenze per ovviare, dall'alto, a questo doloroso stato di fatto. Per tutti, lo Stato avrebbe potuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico, e provvidenziale: e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l'ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa.
Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato. Fra lo statalismo fascista, lo statalismo liberale, lo statalismo socialistico, e tutte quelle altre future forme di statalismo che in un paese piccolo-borghese come il nostro cercheranno di sorgere, e l'antistatalismo dei contadini, c'è, e ci sarà sempre, un abisso; e si potrà cercare di colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano parte. Le opere pubbliche, le bonifiche, sono ottime cose, ma non risolvono il problema. La colonizzazione interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l'Italia, non solo il mezzogiorno, diventerebbe una colonia. I piani centralizzati possono portare grandi risultati pratici, ma sotto qualunque segno resterebbero due Italie ostili. Il problema di cui parliamo è molto più complesso di quanto pensiate. Ha tre diversi aspetti, che sono le tre facce di una sola realtà, e che non possono essere intese né risolte separatamente.
Siamo anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime; nessuna delle quali è in grado di assimilare l'altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana, stanno di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo dissidio secolare, giunto ora alla sua più intensa acutezza, e non soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e quello del secolo scorso non sarà l'ultimo. Finché Roma governerà Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e tirannica.
Il secondo aspetto del problema è quello economico: è il problema della miseria. Quelle terre si sono andate progressivamente impoverendo; le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati e dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte. Non ci sono capitali, non c'è industria, non c'è risparmio, non ci sono scuole, l'emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria. Tutto ciò è in buona parte il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che per essi ha creato soltanto miseria e deserto.
Infine c'è il lato sociale del problema. Si usa dire che il grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt'altro che una istituzione benefica. Ma se il grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale.
Questo problema, nel suo triplice aspetto, preesisteva al fascismo; ma il fascismo, pure non parlandone più, e negandolo, l'ha portato alla sua massima acutezza, perché con lui lo statalismo piccolo-borghese è arrivato alla più completa affermazione. Noi non possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparino per il futuro: ma in un paese di piccola borghesia come l'Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, per evoluzione lenta o per opera di violenza, e anche le più estreme e apparentemente rivoluzionarie fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie; ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l'eterno fascismo italiano, Senza una rivoluzione contadina, non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa. Le due cose si identificano. Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento.
Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto di individuo che ne è alla base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato. L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. È questa la sola forma statale che possa avviare a soluzione contemporanea i tre aspetti interdipendenti del problema meridionale; che possa permettere la coesistenza di due diverse civiltà, senza che l'una opprima l'altra, né l'altra gravi sull'una; che consenta, nei limiti del possibile, le condizioni migliori per liberarsi dalla miseria; e che infine, attraverso l'abolizione di ogni potere e funzione sia dei grandi proprietari che della piccola borghesia locale, consenta al popolo contadino di vivere, per sé e per tutti. Ma l'autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l'autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città; di tutte le forme della vita  sociale. Questo è quello che ho appreso in un anno di vita sotterranea.
Così avevo detto ai miei amici, e andavo ora rimeditando mentre il treno, nella notte, entrava nelle terre di Lucania. Erano i primi accenni di quelle idee che dovevo poi sviluppare negli anni seguenti, attraverso le esperienze dell'esilio e della guerra. E in questi pensieri mi addormentai.

Da: Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli (1944)

Fonte: http://www.polyarchy.org/basta/documenti/levi.1944.html

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