Ripensando alla Magna Charta

lug 7, 2012 0 comments
Di Noam Chomsky
Nota della redazione di Znet Italy: questo articolo è adattato da un discorso tenuto da  Noam Chomsky il 19 giugno all’Università di St. Andrews a Fife, Scozia, come parte delle celebrazioni del seicentesimo anniversario della stessa.
Eventi recenti disegnano una traiettoria sufficientemente minacciosa da rendere forse utile guardare avanti di un paio di generazioni alla ricorrenza dei mille danni da uno dei grandi eventi dell’istituzione dei diritti civili e umani: la sottoscrizione della Magna Charta, lo statuto delle libertà inglesi imposto a re Giovanni nel 1215.
Quello che facciamo, o non facciamo oggi determinerà quale tipo di mondo saluterà tale anniversario. Non è una prospettiva attraente, anche per il motivo, non ultimo, che il Grande Statuto viene stracciato davanti ai nostri occhi.
La prima edizione accademica della Magna Carta fu pubblicata nel 1759 dal giurista inglese William Blackstone, il cui lavoro fu una delle fonti della legge costituzionale statunitense. Era intitolate “Il Grande Statuto e la Carta della Foresta”, seguendo una pratica anteriore. Entrambi gli statuti sono molto significativi oggi.
Il primo, la Carta delle Libertà, è diffusamente riconosciuto come la pietra angolare dei diritti fondamentali dei popoli anglofoni o, nella definizione più grandiosa di Winston Churchill, “la carta di ogni uomo che si rispetti, in ogni tempo e in ogni paese.”
Nel 1679 la Carta fu arricchita dalla legge sull’Habeas Corpus, intitolata formalmente “una legge per la miglior garanzia della libertà del soggetto e la prevenzione dell’incarcerazione all’estero”. La versione moderna più violenta viene chiamata “rendition” [‘consegna’ – n.d.t.]: l’incarcerazione a fini di tortura.
Come gran parte della legge inglese, tale legge fu inclusa nella Costituzione degli Stati Uniti, che afferma che “il decreto sull’habeas corpus non sarà sospeso” eccetto che in caso di rivolte o invasioni. Nel 1961 la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che i diritti garantiti da questa legge erano “considerati dai Fondatori la maggiore salvaguardia della libertà.”
Più specificamente, la Costituzione prevede che nessuna “persona sarà privata della vita, della libertà o della proprietà, senza un giusto processo legale [e] un pronto e pubblico processo” da parte dei suoi pari.
Il Dipartimento della Giustizia ha recentemente spiegato che queste garanzie sono rispettate mediante delibere interne del ramo esecutivo, come hanno riferito Jo Becker e Scott Shane sul The New York Times del 29 maggio. Barack Obama, l’avvocato costituzionale della Casa Bianca, si è detto d’accordo. Re Giovanni avrebbe annuito soddisfatto.
Anche al  principio sottostante della “presunzione d’innocenza” è stata da un’interpretazione originale. Nel calcolo della lista “lista delle eliminazioni” di terroristi del presidente, “tutti i maschi in età da servizio militare in una zona di attacco” sono in realtà considerati combattenti “a meno che ci siano informazioni postume che ne dimostrano l’innocenza”, hanno sintetizzato Becker e Shane. Dunque oggi la determinazione dell’innocenza dopo l’uccisione è sufficiente per rispettare il principio consacrato.
Questo è l’esempio più semplice dello smantellamento della “carta di ogni uomo che si rispetti”.
L’accompagnatoria Carta della Foresta è forse anche più pertinente oggi. Rivendicava la protezione dei beni comuni dal potere esterno. I beni comuni erano la fonte di sostentamento della popolazione generale: il loro combustibile, il loro cibo, il loro materiale da costruzione. La Foresta non era la natura selvaggia. Era accudita attentamente, amministrata in comune, le sue ricchezze erano disponibili a tutti e preservate per le generazioni successive.
Arrivati al diciassettesimo secolo la Carta della Foresta era caduta vittima dell’economia mercantile e della prassi e moralità capitalista.  Non più protetti per la cura e l’utilizzo comuni, i beni comuni erano limitati a ciò che non poteva essere privatizzato: una categoria che si fa sempre più striminzita davanti ai nostri occhi.
Il mese scorso la Banca Mondiale ha stabilito che la multinazionale estrattiva Pacific Rim può procedere con la sua causa contro il Salvador per il tentativo di tale stato di difendere il territorio e le comunità da miniere d’oro altamente distruttive. La protezione dell’ambiente priverebbe la società di profitti futuri, un delitto secondo le regole del regime dei diritti degli investitori scorrettamente etichettato “libero mercato”.
Questo è solo uno delle esempi delle lotte in corso in gran parte del mondo, alcune con estrema violenza, come nel Congo orientale, ricco di risorse, dove sono stati uccisi milioni di persone in anni recenti per garantire una vasta fornitura di minerali per telefoni cellulari e altri utilizzi e, naturalmente, per grandi profitti.
Lo smantellamento della Carta della Foresta ha portato con sé una revisione radicale del modo in cui sono concepiti i beni comuni, colta dall’influente tesi di Garrett Hardin nel 1968 secondo cui “la libertà in un bene comune ci porta tutti alla rovina”, la famosa “tragedia dei beni comuni”: tutto ciò che non è di proprietà privata sarà distrutto dall’avarizia individuale.
La dottrina non è priva di contestazioni. Elinor Olstrom ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2009 per il suo lavoro che dimostrava la superiorità dei beni comuni amministrati dagli utilizzatori.
Ma la dottrina ha forza se ne accettiamo la premessa non dichiarata: che gli esseri umani sono ciecamente guidati da quello che i lavoratori statunitensi, all’alba della rivoluzione industriale, chiamarono “il Nuovo Spirito dell’Età, Conquistare Ricchezza dimenticandosi di tutto tranne che di Sé Stessi”, una dottrina che i lavoratori condannarono come degradante e distruttiva, un assalto alla natura stessa di un popolo libero.
Enormi sforzi sono stati dedicati da allora a inculcare il Nuovo Spirito dell’Età. Le maggiori industrie sono dedite a quella che l’economista politico Thorstein Veblen chiamò “la costruzione dei bisogni”: indirizzare la gente alle “cose superficiali” della vita, come i “consumi alla moda”, nelle parole del professore di marketing dell’Università della Colombia Paul Nystrom.
In quel modo la gente può essere resa individualista, alla ricerca del solo guadagno personale, e distratta da sforzi pericolosi di pensare per conto suo, agire di concerto e sfidare l’autorità.
Non è necessario diffonderci sui pericoli estremi posti da un unico elemento centrale della distruzione dei beni comuni: la dipendenza dai combustibili fossili, che fa la corte al disastro globale.  Si può discutere dei dettagli, ma ci sono ben pochi dubbi seri che i problemi siano sin troppo reali e che quanto più aspettiamo ad affrontarli, tanto più orribile sarà l’eredità che lasceremo alle generazioni a venire. La recente Conferenza di Rio+20 è il tentativo più recente. Le sue aspirazioni sono state magre, i suoi risultati derisori.
In prima linea nell’affrontare la crisi, in tutto il mondo, sono le comunità indigene. La posizione più forte è stata presa dall’unico paese che governano, la Bolivia, il paese più povero dell’America del Sud e per secoli vittima della distruzione occidentale delle sue ricche risorse.
Dopo l’ignominioso collasso del vertice di Copenaghen del 2009 sul cambiamento climatico globale, la Bolivia ha organizzato un Vertice dei Popoli, con 35.000 partecipanti da 140 paesi. Il vertice ha chiesto una riduzione molto severa delle emissioni inquinanti e una Dichiarazione Universale dei Diritti di Madre Natura. Questa è una rivendicazione fondamentale delle comunità indigene di tutto il mondo.
Tali rivendicazioni sono messe in ridicolo dai sofisticati occidentali, ma se non acquisiremo un po’ della sensibilità delle comunità indigene, probabilmente saranno loro a ridere per ultime; una risata di sinistra disperazione.


Fonte: http://www.zcommunications.org/revisiting-the-magna-carta-by-noam-chomsky

Originale: In These Times

traduzione di Giuseppe Volpe 

Da Znet

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