Dwekh Nawsha, le milizie cristiane che combattono l’ISIS

mar 4, 2015 0 comments
La caduta, nel giugno scorso, della città irachena di Mossul nelle mani degl’«insorti sunniti», risultati poi essere membri combattenti della famigerata organizzazione «Stato Islamico», ha permesso ai jihadisti d’ottenere una valida base operativa per incursioni nelle città e nelle zone di tradizionale popolamento cristiano della provincia di Ninive.
Questi attacchi (tuttora in corso nel quadro del conflitto fra i jihadisti e le forze curde, trovandosi la provincia di Ninive sulla «linea del fronte») hanno aggravato una situazione estrema per le popolazioni cristiane, già vittime dopo la caduta di Mossul non solo d’omicidî, stupri, violenze ed espropri, ma anche del sadismo col quale sono stati invitati a scegliere tra lasciare le loro case perdendo tutto i loro beni, convertirsi all’Islam o restare accettando lo status di dhimmi (sudditi non-musulmani «protetti» in cambio del pagamento d’una tassa estorsiva, la jizya). Sul grado di fiducia accordabile ai jihadisti nessuno si fece allora illusioni, e infatti i mesi seguenti hanno tristemente dimostrato come non esistesse alcuna reale garanzia del rispetto della dignità umana dei cristiani, venduti come schiavi, torturati o uccisi arbitrariamente dai «soldati» del Califfo al-Baghdadi.
Al pericolo d’«estinzione religiosa (cristiana)» nella zona, tuttavia, se ne somma un altro: quello dell’«estinzione» tout court d’un popolo antichissimo, gli Assiri, e d’una lingua, l’aramaico, che può vantare fra i suoi locutori anche Gesú Cristo (stando, almeno, alla testimonianza dei Vangeli).
Quella d’Assiri (o neoassiri, per distinguerli meglio dall’antica popolazione mesopotamica) è una denominazione etnonazionale che in origine raggruppava i cristiani nestoriani (i fedeli della Chiesa assira d’Oriente, Chiesa autocefala di tradizione siriaca orientale fondata, secondo la tradizione, dall’apostolo san Tommaso), per poi passare a indicare tutti i gruppi cristiani d’Oriente di lingua e cultura neoaramaica: i caldei (in comunione con Roma), i siriaci ortodossi e i siriaci cattolici, principalmente, ma anche altri gruppi minori, come la Chiesa evangelica assira (protestante).
Sebbene durante la storia gli Assiri abbiano piú volte patito enormi sofferenze e siano stati violentemente perseguitati, è nel Novecento che si profila per la prima volta il rischio dell’estinzione del popolo assiro. Nel quadro del piú noto «genocidio armeno» intrapreso dalle autorità turche, molte altre minoranze, soprattutto cristiane, vengono prese di mira dalla furia genocida dell’Impero ottomano ormai in ginocchio.
Circa 300.000 assiri perderanno la vita, e un numero maggiore lascerà per sempre la provincia di Ninive e l’Iraq, dando vita a una diaspora che si concentrò soprattutto in Svezia, in Germania e negli Stati Uniti d’America.
Attualmente, su circa 4,5 milioni d’assiri nel mondo, meno d’un milione vive ancora nella zona tradizionale di popolamento a cavallo tra Siria e Iraq, mentre il 40% circa degl’iracheni che ha lasciato il Paese dalla prima guerra del Golfo a oggi appartiene proprio al popolo assiro — un’emorragia nemmeno troppo graduale che rischia di fare scomparire in pochi decenni una cultura e una tradizione non solo fra le piú antiche, ma anche fra le piú ricche, e la cui legittimità storica non può essere messa in dubbio, se non dai fanatici tagliagole dello Stato Islamico.
È in questo contesto che nasce un gruppo combattente d’autodifesa formato da membri del popolo assiro: il nome Dwekh Nawsha è l’equivalente aramaico dell’arabo Fedayyin e significa letteralmente «i pronti al sacrificio».
Questo gruppo, che alla fondazione contava una quarantina di combattenti, attivi in coordinazione con le forze curde nella difesa dei villaggi cristiani della provincia di Ninive dalle incursioni jihadiste, grazie soprattutto al sostegno finanziario e politico della diaspora assira è arrivato oggi a contare alcune centinaia di militanti, equipaggiati principalmente con armi leggere e pochi mezzi di trasporto. Uno dei pochi movimenti attivi nel sostegno a Dwekh Nawsha è quello delle «Forze libanesi», ex milizia armata della «Falange» durante la guerra civile libanese, trasformatasi poi in movimento politico autonomo alla fine del conflitto, che sembra aver fornito nei mesi scorsi una moderata assistenza in termini d’addestramento ai combattenti assiri.
Se il potenziale militare di Dwekh Nawsha non è attualmente — e difficilmente lo sarà, anche a medio-lungo termine — capace d’incidere realmente sul conflitto, non per questo l’esistenza d’un simile gruppo combattente è un fatto anòdino. In primo luogo, nella situazione disperata nella quale versano gli Assiri, ogni atto di resistenza e di difesa, foss’anche d’un solo villaggio, d’una sola chiesa o d’un solo monastero, è un messaggio forte contro la barbarie genocida dello Stato Islamico e un’affermazione della volontà del popolo assiro di restare nella loro terra ancestrale.
In seconda battuta, il progetto di Dwekh Nawsha non è unicamente militare, benché ovviamente questa dimensione sia al momento prioritaria. Il nucleo originale proviene, infatti, da militanti del Partito Patriottico Assiro «Atranaya», che si batte storicamente per ottenere un riconoscimento dell’autonomia della provincia di Ninive come culla del popolo assiro. Gradualmente, benché al momento la situazione sia talmente mutevole sul territorio da rendere ogni previsione futile, si potrebbe ipotizzare che (ovviamente solo nel caso d’una sconfitta definitiva dello Stato Islamico) una simile entità potrebbe essere costituita all’interno d’un Kurdistan de facto indipendente, sicuramente piú adatto rispetto a un Iraq destinato a diventare nel migliore dei casi un «satellite» iraniano e, nel peggiore, l’ennesimo Stato postcoloniale fallito.

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L’Assiria non morirà: è questo il grido di sfida e dolore che lanciano al mondo i combattenti cristiani di Ninive. A condizione, però, che questo grido non resti inascoltato, e che la battaglia degli assiri per la sopravvivenza diventi anche la nostra battaglia, per non doversi trovare fra vent’anni a parlare di questi anni come degli ultimi per una civiltà quattro volte millenaria.

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