I privilegi e gli sprechi della FAO: se non esistesse, più di 1 milione di persone eviterebbero la morte per fame

mag 5, 2015 0 comments

Se la FAO (ONU) non esistesse, ogni anno 1.188.493 persone eviterebbero la morte per fame.
Tanti sono infatti gli individui che potrebbero campare, con almeno 1 dollaro al giorno per 12 mesi, nel caso in cui i 433.8 milioni del budget annuale della Food and Agricolture Organization andassero ai bisognosi, invece che alimentare questo inutile ente dell’Onu. Moltiplicato per i suoi 63 anni di esistenza, gli individui sulla coscienza della FAO sfiorerebbero i 75 milioni.
In compenso migliaia di professional dell’agenzia continuano a condurre una vita da sogno, coccolati in una babele di sprechi e privilegi a spese dei Paesi donatori e di quello ospitante, cui spetta il conto della logistica: l’Italia. Fedeli al vero motto del carrozzone umanitario. Non “Food for all” ma “Food for Fao”.
A CHE SERVE LA FAO
Qual è il più grande organismo per gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite con sede a Roma? La risposta pare scontata: la FAO. Invece no. L’agenzia in prima linea nella lotta contro la fame è il World Food Program, basato sempre nella capitale (via Viola). Esso dispone del doppio dei dipendenti FAO (8000 contro 4000), e di un budget annuale 7 volte tanto (2.9 mld $). Alimenta 73 milioni di persone in 78 Paesi. Mentre la mission della FAO è in sostanza informare sui bisogni della popolazione. Una specie di enorme ufficio studi, di cui il Wfp non è l’unico clone. Anche in campo agricolo esiste un’agenzia specializzata dell’Onu, l’Ifad, che raccoglie fondi per i contadini denutriti. E ha un bilancio pari a un terzo di quello FAO. La sede? Ancora Roma, via Del Serafico.
DUTY FREE
Che ci fanno casse di Champagne, delicatessen, capi firmati e profumi alla page nei sotterranei del quartier generale FAO alle Terme di Caracalla, tra i poster di africani morenti? Sono solo una parte dei prodotti offerti a prezzi super-politici ai 400 dirigenti, nel market “Commissary” situato al livello -1. Lo spaccio, in virtù dell’extraterritorialità, sarebbe riservato ai diplomatici. Ma lo scambio di tessere è pratica comune. Come il reselling. Completano il carnet per i 2500 impiegati la boutique al ground floor (con sconti del 40% e schiccherie senza marchio FAO), un distributore interno con benzina sottocosto, una banca, un presidio medico con ambulanza, una fermata “privata” del metrò.
CURA DIMAGRANTE
Già nel ’94 il neo direttore Diouf lanciò la “grande riforma” per ridurre i mostruosi costi dei dipendenti. Un esercito di consulenti, collaboratori, personale a contratto e associato, diviso tra infiniti comitati, sezioni e sottosezioni. Con quote fisse riservate senza merito agli originari di culture dalla scarsa produttività. Ciò che non cala mai sono però gli stipendi. Un archivista di basso livello (P1) guadagna come il manager di una media azienda. Coordinatori P3 e Senior commodity specialist sopra i 100.000 euro. Nel 2007 Diouf ha rilanciato l’inefficace riforma con le stesse parole di 13 anni prima. Creando la paradossale figura del controllore dei controllori.
LA FABBRICA DEL DUOMO
I lavori dentro le sedi FAO non finiscono mai. Pareti, pavimenti, mense, negozi, sale conferenza, sistemi elettrici, strumenti informatica e video. Tutto è in perenne rifacimento. Gli appalti se li aggiudicano le solite aziende amiche. Ma certamente sarà un caso. A far la parte del leone nel bilancio dei donors, le voci Amministrazione e strutture, Politiche direttive ed Emolumenti, che da sole si mangiano quasi due terzi del budget.  Alla cooperazione sul campo restano le briciole.
GRAND HOTEL
Per i delegati dei Paesi poveri il Food Summit nella città eterna è una vacanza pagata a 5 stelle. Verranno pure a chiedere l’elemosina, ma per farlo si piazzano financo nella suite reale dell’Hotel Parco dei principi. Dove dispongono dello stretto necessario: salone privato da 200 mq, 2 cucine autonome per pranzi luculliani, idromassaggio e bagno turco computerizzati, tigri in bronzo in scala reale, lampadari d’oro e stoviglie d’argento.
PRIVILEGIATI PER LEGGE
In virtù dei passaporti diplomatici i dipendenti FAO possono acquistare le auto più prestigiose dai concessionari romani col 40% di sconto e assicurarle per un tozzo di pane. Sono immuni dalle multe e godono di un regime esent-iva anche su arredi e beni di consumo. La “Casa Gazette” è zeppa di annunci merceologici col marchio Diplomat sales o Trattamenti speciali FAO. Lo consente l’art. 13 dell’accordo Italia FAO del 1951, che equipara l’esenzione fiscale dei funzionari a quella dei diplomatici d’ambasciata in tempi di guerra. Una nota interpretativa dell’allora ministro Andreotti estese nell’86 i privilegi pure agli italiani in servizio alla FAO.
SCUOLE VIP E CORSI
Ai figli dei dipendenti l’agenzia paga collegi per super-ricchi da 12.000 euro l’anno, a un passo dal Colosseo. Ad esempio sulle rette di frequenza del St. Stephen’s di via Aventina, mamma FAO rimborsava il 75% della retta. Ad attendere i pargoli un campus di tre acri in stile Usa, con campi da tennis, spazi per danza e pattinaggio su ghiaccio, art studios e mediacenter. La FAO Coop, inoltre, organizza per i dipendenti più di 50 corsi, dal tango allo yoga, dalla dama al golf. Per i saggi finali li porta al Carnevale di Viareggio. Due le palestre interne. Ma i più gettonati sono i corsi di teatro: agli appassionati del palcoscenico si insegna il metodo FeldenKrais.
ERGONOMICA
Lavorare stanca, specie al computer. Per le schiene dei cari dipendenti la FAO crea un dipartimento onde studiare postazioni più comode.
SUD-SUD COOPERATION
Quando i fondi anti povertà si perdono in mille sprechi, in FAO girano il conto agli stessi Paesi da assistere. Finanziando l’avvio del progetto per poi lasciare l’onere a un altro Paese del 3° mondo un filo meno in crisi, ma a sua volta beneficiario delle campagne di donazione. Geniale.
TURISMO D’ÉLITE
Fra gli stati “assistiti” figurano anche i 33 membri del Sids, i “Microstati isolani in via di sviluppo”, tra cui, udite, udite, Bahamas, Maldive, Seychelles, Barbados, Mauritius, Fiji, e l’emirato del Bahrein. Peccato che in questi paradisi oltre a non esserci la fame non c’è neppure l’agricoltura. E gli Ogm? Se vi si ricorresse in modo massiccio la fame nel mondo sparirebbe. Ecco perchè la priorità della FAO è rammentarne ai governi i presunti rischi. Ma l’etica non si mangia.
La Fao, per dirla con le parole del presidente del Senegal Abdoulaya Wade, deve chiudere. Per il semplice motivo che la Fao è uno scandalo, uno degli esempi del come non si deve fare cooperazione.
La Fao denuncia, grida, urla che il mondo è alla fame, che la crisi è gravissima. Che altri milioni di persone si stanno sommando ai milioni che già oggi soffrono la fame. Bene. E la Fao cosa fa? Spenderà 784 milioni di dollari per affrontare il problema nei prossimi due anni. Cioé un milione di dollari al giorno. Come li spende? Una commissione di economisti guidata da Leif Christoffersen e voluta dalla stessa Onu, ha accertato che almeno la metà di questi soldi, cioé un milione di dollari ogni due giorni, è spesa per mantenere la struttura burocratica di questo colosso delle Nazioni Unite.
“In molti uffici – dice la commissione – i costi amministrativi sono superiori ai costi del programma”. Il Giornale, in un articolo di Emanuela Fontana, ci spiega che la parola food, cibo, compare solo tre volte nel bilancio, per un totale di 90 milioni di euro su quasi ottocento. Duecento milioni di euro se ne vanno solo per le spese necessarie a “riunire” i dipendenti.
Deve chiudere anche perché ci sono altre agenzie dell’Onu che si occupano degli stessi temi: il Fondo Internazionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura (435,7 milioni di dollari), il World Food Programme (cinque miliardi di dollari), il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (4 miliardi e 440 milioni di dollari). Un totale di circa dieci miliardi di dollari all’anno spesi dalle Nazioni Unite per risolvere il problema della fame nel mondo. O girando la frase secondo le indicazioni della stessa commissione Onu, 27 milioni di dollari spesi ogni giorno per mantenere le strutture. E quindi anche la fame nel mondo, che a quanto pare è un bel business per i “funzionari della cooperazione”.
Fonti: “Libero” e “Il Giornale”

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