Il pensiero di Novalis:dall'idealismo magico al cristianesimo neoplatonico

lug 21, 2015 0 comments


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A differenza di Schlegel, il quale intraprende in questo periodo un percorso sostanzialmente unitario, il pensiero di Novalis presenta un’evoluzione rapidissima in due diverse fasi, alle quali corrispondono due diverse visioni del mondo: la prima fase (che si estende dal 1797 al 1798) è quella nota col nome di “idealismo magico”, ad indicare quella dottrina formulata da Novalis in una nutrita serie di frammenti – raccolti sotto il titolo Polline – e nel romanzo incompiuto I discepoli di Sais (1798). 







La seconda fase (che si ha tra il 1799 e il 1801, anno della scomparsa di Novalis) esprime un mutato punto di vista ed è definibile con l’etichetta di “neoplatonismo cristiano”: a produrre questo cambiamento di percorso è l’incontro col pensiero di Plotino, di Spinoza e della tradizione mistica tedesca. Le opere che vedono la luce in questa seconda fase sono una nuova serie di frammenti, il romanzo Enrico di Ofterdingen, gli Inni alla notte e il saggio Cristianità o Europa. Passiamo all’esame più dettagliato della prima fase, quella dell’idealismo magico: si tratta di un periodo marcatamente influenzato dal pensiero di Fichte (è da lui che Novalis desume la componente di idealismo cui allude l’etichetta “idealismo magico”) e, per entrare in medias res, possiamo muovere da due frammenti novalisiani. “Il metodo di Fichte e di Kant non è stato esposto ancora del tutto e con sufficiente precisione: entrambi non sanno ancora sperimentare con sufficiente facilità” e col giusto punto di vista trascendentale. Il secondo frammento dice invece: “è probabile che esistano e che esisteranno uomini capaci di fichteggiare molto meglio di Fichte”. Dalla lettura dei due frammenti, è facile capire come Novalis subisca il fascino dell’idealismo fichteano, che egli avverte coem sollecitatore di congetture e come stimolante ad ulteriori riflessioni che egli va presentando in forma di ipotesi e di domanda: ciò significa che non si tratta di elaborare sistematicamente il punto di vista di Fichte (e anzi Novalis è profondamente anti-sistematico), ma piuttosto di congetturare a partire da esso, sviluppando – nella forma del frammento - le virtualità e le potenzialità (anche artistiche) di un tale pensiero, che Novalis presenta – con terminologia alchemica - come una serie di “fermenta cognitionis”. Proprio muovendo da queste considerazioni, egli perviene ad un impiego poetico e fantastico della riflessione di Fichte: questi è visto come colui ceh accende la fantasia di chi sa “fichteggiare” meglio di lui stesso, attivando tutte le possibili congetture virtualmente racchiuse nel suo pensiero. E, nella fattispecie, il punto di partenza che Novalis mutua da Fichte è l’idea che il mondo sia il prodotto inconsapevole della struttura trascendentale di tutti i soggetti umani. In particolare, a colpirlo è la nozione di “immaginazione produttiva”: operando inconsciamente in ogni soggetto, essa si prolunga – nota Novalis – nell’immaginazione produttiva dell’artista. Si è spesso sostenuto che i Romantici fraintendono Fichte nella misura in cui confondono l’Io infinito con l’Io empirico: ma, se riferita a Schelling e a Novalis, tale tesi è erronea, giacché nessuno dei due autori cede ad un tale travisamento di bassa lega. Quel che i Romantici fanno è, piuttosto, una “legittima” (almeno dal loro punto di vista) accentuazione dell’Assoluto nel finito: e, del resto, non era forse Fichte stesso ad insegnare che l’Assoluto vive soltanto nel finito, come sua condizione? Si tratta di render consapevole l’inconsapevole, volontario l’involontario, ossia di muoversi nella direzione di un impadronimento cosciente dell’attività assoluta inconsciamente operante nella coscienza di ogni singolo individuo. Fichte notava che il non-Io (cioè il mondo esterno) è, in ultima analisi, l’Io stesso: sulla sua scia, Novalis, alla domanda “che cos’è la natura?”, risponde che essa è “un indice sistematico, enciclopedico dello spirito, un piano dello spirito”. Con ciò, egli intende dire che essa è inconsapevole limitazione dell’Io stesso. In questo senso, per Novalis la natura è spirito solidificato, attività pratica rappresa, “il passato dell’Io”, ovvero ciò che l’Io cessa sempre e di nuovo di essere in virtù del suo essere attività pratica. Dall’identità di natura e spirito, segue che conoscere il mondo equivale a conoscere se stessi, cosicché “capiremo il mondo quando capiremo noi stessi”: e la comprensione del mondo non può che avvenire congetturalmente, attraverso la conoscenza di ciò che inconsapevolmente siamo (dal canto suo, la scienza conosce solo la superficie fenomenica del mondo, mai l’in sé della natura). Un tal punto di vista mette in luce come, per conoscere l’universo, si debba viaggiare non nell’universo stesso, ma in se stessi: “verso l’interno si volge la via misteriosa” e, a tal proposito, l’immagine che meglio esprime questa concezione è quella del minatore che si cala nelle profondità dell’Io (la psicanalisi di Freud affonda qui le proprie radici). “L’universo non è forse in noi?”, si domanda Novalis: il mondo esterno – come abbiamo detto – non è che Io pietrificato, inerzia, libertà passata, “è la somma delle cose passate e staccate da noi”: il criterio di conoscenza diventa allora quello dell’analogia, che schiude la natura metafisica del mondo. Grazie ad essa, applicando al mondo la conoscenza che abbiamo di noi stessi, possiamo estendere sempre più il nostro sapere. Proprio in questa prospettiva, alla mania congetturale di Novalis si affiancano le divagazioni poetico/fantastiche nelle quali egli non si perita di considerare la natura in analogia con l’uomo, con la conseguenza che essa va incontro ad una progressiva antropomorfizzazione, diventando una persona cara in quanto nota (giacchè la natura siamo noi stessi o, meglio, eravamo noi stessi). Allora familiarizzare con la natura significa familiarizzare con noi stessi, il che spiega perché i poeti abbiano l’innata tendenza a personificare le cose e a parlarne come se esse fossero persone viventi: “noi dobbiamo considerare natura e mondo esterno come un essere umano che possiamo e dobbiamo comprendere come comprendiamo le persone care”. Si affaccia qui una relazione dell’uomo con la natura che è di tutt’altro genere rispetto a quella di mero sfruttamento fatta valere dalla borghesia illuministica dell’età della “rivoluzione industriale”. Resta però da chiarire perché l’idealismo di Novalis venga definito “magico”: esso è così detto perché evidenzia il carattere prodigioso della creazione della natura da parte dell’Io; esso la crea senza saperlo e ne resta incantato – qui sta l’elemento magico -, credendo che essa sussista indipendentemente. Il mondo è una creazione dell’Io, ma gli appare come “altro”: a tal punto l’incantesimo è stato forte. L’Io, preda del proprio stesso incantesimo, è l’Io del punto di vista realistico, per il quale il mondo esterno ha una sua realtà: rispetto a questo punto di vista, l’idealismo di Fichte è una rivoluzione sconvolgente, perché – nell’ottica novalisiana – il mondo è al contempo soggettivo (perché prodotto dall’Io) e oggettivo (perché non riconosciuto dall’Io come sua produzione): “il più gran mago – scrive Novalis – sarebbe chi sapesse incantare se stesso fino al punto che le sue stesse magie gli apparissero fenomeni estranei, e questo non potrebbe essere il caso nostro”. Ma si tratta di un idealismo “magico” anche per un secondo motivo: l’uomo è infatti dotato di una potenza magica, per lo più ancora inutilizzata, che può essere attiva se si ridesta la creatività di cui egli è inconsapevolmente capace, diventandone consapevole e usandola coscientemente e volontariamente. Ciò può essere il frutto di un esercizio di vigilanza e di attenzione tali da trasformare l’inconsapevole in consapevole e da sviluppare le facoltà dell’uomo, incrementandone l’attività. In questo senso, quanto più diventiamo attivi (diminuendo la nostra inerzia), tanto più il mondo esterno perde potere su di noi, essendo esso null’altro che la nostra inerzia (spirito addormentato). Sicché vincere l’inerzia significa vincere la resistenza del mondo nei nostri confronti, recuperare le forze latenti, estendere il dominio della volontà. V’è poi un’altra possibilità: ricreare il mondo. Anzitutto, affinché ciò si attui, occorre rivolgersi al proprio corpo, trasformandolo nella nostra stessa volontà e, pertanto, vincendo le funzioni involontarie. Si tratta pertanto di acquisire una totale padronanza del proprio corpo e di tutti i suoi movimenti involontari, con la conseguenza che, quando ciò sarà avvenuto, ognuno sarà medico di se stesso, potrà togliersi la vita secondo la propria volontà e potrà addirittura modificare la rappresentazione del corpo che vorrà. Del resto, abbiamo già concreti esempi di relativo dominio dei sensi ad opera della fantasia: in particolare, dobbiamo pensare al pittore che nelle sue opere fa vedere cose che gli occhi comuni non vedono, cose che in natura non hanno cittadinanza. Sicché l’arte migliora la natura, raffigurandola nella sua perfezione ideale. Questa magia positiva si applica non solo al corpo, ma all’intera natura, cosicché il mondo dev’essere come voglio io. Il tema della ricreazione del mondo va dunque nella direzione di una sua moralizzazione: in effetti, se esso è una mia rappresentazione, allora dipende da me come me lo rappresento; in tale ottica, non stupisce che lo stesso luogo possa apparirci diverso a seconda degli stati d’animo che abbiamo quando lo osserviamo (se siamo depressi, ci apparirà uggioso; ma se siamo euforici, ecco allora che ci sembrerà allegro). Ciò vuol dire che “noi abbiamo creato la natura come materiale del nostro dovere morale, possiamo ricrearla associandola alla nostra stessa moralità”. Com’è noto, in Fichte la natura è fatta per essere vinta dallo spirito e dissolta nella pura identità della ragion pura pratica con se stessa: ora, Novalis apporta una variante introducendo la legge morale nella natura stessa. Ciò significa che cade l’antagonismo tra inclinazioni sensibili e imperativo categorico, nel senso che l’istanza razionale è estesa alle stesse inclinazioni sensibili. Quella che abbiamo di fronte è dunque una natura sognata dal poeta, moralizzata e pertanto tale da essere dominata non dalla legge del più forte, bensì da una convivenza armoniosa tra gli uomini, nella quale il rispetto dell’uomo come fine è esteso a tutte le creature viventi in natura (troviamo qui i prodromi del contemporaneo ecologismo). Si tratta quindi di una natura edenica, bonificata e pacificata: ciò non toglie che a dircelo siano sempre congetture e scenari onirici e fiabeschi, in un panorama di utopia e di forte opposizione all’immagine sensistica della natura offerta dall’Illuminismo.

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