Lewis Mumford e il concetto della Megamacchina sociale nella critica della società industriale moderna

lug 23, 2015 0 comments



Di Igor Giussani


Lewis Mumford è stato un intellettuale del Novecento brillante ed eterodosso, versato in più campi, dalla storia all’urbanistica, dalla filosofia della scienza alla sociologia. 







La sua riflessione sugli effetti sociali delle tecnologie è stata particolarmente lucida e in questa sede vorrei approfondire una delle sue teorie più significative, quella della mega-macchina sociale, che nel libro Finanzcapitalismo viene così efficacemente sintetizzata da Luciano Gallino:
“Mega-macchine sociali: cosí sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell’antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l’esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell’Urss… Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona”
Mentre scrivo ho un’improvvisa folgorazione. D’un tratto, mi sembra di capire la ragione del fallimento sostanziale della Sinistra, in tutte le sue varianti – dalla socialdemocrazia al comunismo. La Sinistra, relegando ogni criticità al conflitto capitale-lavoro, non solo non ha mai intaccato la mega-macchina ma ha pensato che il suo sviluppo fosse un elemento fondamentale per il progresso umano, basti pensare allo ‘sviluppo delle forze produttive’ di Marx e alla venerazione per l’industrialismo che ha raggiunto l’apice con la tecno-scienza sovietica. La Sinistra ha pensato che il suo compito fosse di rendere più agevole il rapporto del cittadino con la mega-macchina – controllo dei mezzi di produzione, buon salario, ambiente di lavoro dignitoso, assistenza sociale – non di emanciparlo da essa. E’ stato il socialismo orgogliosamente ‘scientifico’ a bollare come ‘utopisti’ tutti i tentativi di creare un rapporto armonico uomo-macchina.
Come capita ogni volta in cui credo di aver avuto un’intuizione geniale, nel giro di qualche minuto mi accorgo di aver scoperto l’acqua calda. Nella mente mi immagino Illich, Latouche, Gorz, Boochkin e altri pensatori applaudirmi ironicamente per le ore spese sui loro libri senza capirci troppo, evidentemente. Come diciamo noi professori di scuola, “il ragazzo è un po’ lento ma apprende”, ironizzando sugli studenti che si avvicinano all’agognata meta del diploma ripetendo alcuni anni.
In particolare, devo aver letto superficialmente questo paragrafo de La convivialità di Ivan Illich:
“Attualmente i criteri istituzionali dell’azione umana sono l’opposto dei nostri, compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano a una società il massimo di produttività. La politica economica socialista si definisce molto spesso per l’ansia di accrescere la produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio dell’interpretazione industriale del marxismo funge da barriera e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa perché industrialmente poco efficiente… L’interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d’immaginazione, d’amore e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata; viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient’altro che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale, è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici, argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo; canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia di rincorsa.
Ciascun aspetto della società industriale è una componente di un sistema globale che implica l’escalation della produzione e l’aumento della domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo. Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione, la corruzione, l’insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico, non si fa che distrarre l’attenzione della gente dal solo problema che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l’appropriazione pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un’equa ripartizione dell’abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto… Fino a quando condividerà l’illusione che sia possibile aumentare la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano: non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento, ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece di determinare quali strumenti possono essere controllati nell’interesse generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda all’interesse generale, è un fatto secondario. Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento distruttivo accresce l’uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l’impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro”
Non credo sia un caso che Serge Latouche abbia scritto un libro specificatamente ispirato all’idea di Mumford, intitolato per l’appunto La Megamacchina, prima di addentrarsi nello specifico a trattare della decrescita.

FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.decrescita.com/news/la-mega-macchina-ovvero-il-nemico/

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