Il mistero dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli negli anni 70

ott 2, 2015 0 comments
Il giornalista Mino Pecorelli viene assassinato in auto mentre lascia la redazione del suo giornale “OP”, nel quartiere Prati di Roma. Pecorelli ha denunciato dalle colonne del suo giornale episodi di corruzione e malcostume, spesso con anticipazioni molto documentate. Ma dalle colonne di “OP”, Pecorelli ha attaccato anche i poteri forti, in particolare il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, rilanciando le accuse contenute nel famigerato memoriale di Moro, rinvenuto nel covo BR di Via Monte Nevoso. Il processo per l’uccisione di Pecorelli avrà un iter lunghissimo: Andreotti sarà assolto nel 2003 dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio.
Cosa conosceva Mino Pecorelli per fargli annunciare che il 15 Marzo 1978 sarebbe accaduto qualcosa di gravissimo in Italia? Era entrato in possesso del memoriale di Moro? Fu ucciso per le verità che minacciava di portare allo scoperto?
Roma, 20 marzo 1979. Carmine Pecorelli è appena uscito dalla redazione di OP, il periodico da lui diretto. Quattro colpi di pistola cal. 7.65, uno in faccia e tre nella schiena, chiudono la sua vita.







Viene trovato steso nella sua Citroen, parcheggiata in via Orazio, a due passi da via Tacito, sede della redazione di “Op”. Il carabiniere ausiliario Ciro Formuso segnala alle 20.40 il delitto alla sala operativa dei carabinieri: il vetro dell’automobile spezzato, la portiera aperta, sangue dappertutto, un cadavere rannicchiato.
L’inchiesta giudiziaria è affidata all’allora sostituto procuratore Domenico Sica e, quando questi lascia la procura di Roma, a Giovanni Salvi, oggi componente del Consiglio Superiore della magistratura. Le indagini si presentano subito difficili, anche per il ruolo svolto da Pecorelli e dal suo giornale, considerato da molti come un mezzo per ricattare politici, militari, industriali. Il direttore di Op si era occupato, sempre con un linguaggio ambiguo e criptico, di tante cose, dallo scandalo dell’ Italcasse, al crack della Sir di Nino Rovelli, dagli affari di Sindona a Giulio Andreotti, dalle Brigate Rosse, al sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.

Osservatore Politico, https://forum.termometropolitico.it
L’iter giudiziario fu, manco a dirlo, faticoso e contraddittorio.
Una prima indagine coinvolge Massimo Carminati, esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti. Che però nel 1991 furono tutti prosciolti dal giudice istruttore Francesco Monastero.
Nel 1993 la svolta: il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, accusa Giulio Andreotti. Nell’inchiesta entrano anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Nell’agosto dello stesso anno le dichiarazioni dei pentiti della banda della Magliana Vittorio Carnovale, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino, Antonio Mancini e Chiara Zossolo, coinvolgono l’allora magistrato romano Claudio Vitalone. Verranno giudicati dalla corte “inattendibili”.
Il processo comincia a Perugia l’11 aprile 1996. A presiedere la Corte d’assise è Paolo Nannarone che però risulta incompatibile. Viene sostituito da Giancarlo Orzella. Il 9 settembre Tommaso Buscetta conferma le accuse contro Andreotti: “Badalamenti e Stefano Bontade mi hanno riferito che l’omicidio Pecorelli lo avevano fatto loro, su richiesta dei cugini Salvo, nell’interesse del senatore Andreotti”. Secondo Buscetta, Pecorelli era in grado di pubblicare documenti che riguardavano il caso Moro e che erano in possesso del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il 10 settembre Buscetta ritratta in parte le dichiarazioni del giorno prima.
Il 24 settembre 1999 – dopo quattro giorni di camera di consiglio, la Corte d’assise di Perugia assolve tutti gli imputati.
Il 17 novembre 2002 la corte d’Appello di Perugia assolve tutti gli altri imputati, ma condanna a 24 anni di reclusione il senatore a vita Giulio Andreotti e l’ex capomafia Gaetano Badalamenti.
Il 30 ottobre 2003 la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Perugia. Andreotti e Badalamenti sono completamente assolti d’accusa dell’omicidio di Mino Pecorelli. L’omicidio Pecorelli resta senza colpevoli.
Ma chi era realmente Pecorelli?
Carmine Pecorelli, detto Mino dopo la laurea in Giurisprudenza, inizia la carriera di avvocato. Si specializza in diritto fallimentare e viene nominato capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo. Nell’ottobre del 1968, fonda OP, “Osservatorio Politico Internazionale”, dapprima agenzia di stampa poi anche una rivista.
Per molti OP è solo un periodico scandalistico. Per altri è invece uno strumento di ricatto e condizionamento del mondo politico, legato ai servizi segreti. L’unica certezza è che il direttore di OP è legato ad alcuni corpi dello stato. Lo riferisce Nicola Falde, colonnello del SID dal 1967 al 1969. Lo testimoniano i suoi legami con Vito Miceli, capo del servizio segreto militare dal 1970 al 1974 e soprattutto con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

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La testata diviene presto molto nota: politici, dirigenti statali, militari, agenti segreti la studiano per scorgervi indicazioni su cosa è successo o previsioni su cosa sta per accadere. Pecorelli, iscritto alla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, descrive con ferocia quadri programmatici leciti ed illeciti, anticipa mosse, spiega fatti strani, svela piani, individua fronde e intuisce tradimenti. Uno stile che gli procura molte inimicizie.
Per il pm Alessandro Cannevale “Pecorelli è il precursore di un giornalismo aggressivo, impertinente, spregiudicato. Dalle colonne del suo giornale egli lanciava stilettate che colpivano un obiettivo preciso, ma non sempre chiaramente individuabile da tutti i lettori. Certamente però individuato da uno di essi: l’obiettivo stesso. Questo poteva cambiare repentinamente: la persona oggi difesa ed apprezzata poteva essere attaccata con violenza nel numero successivo. E viceversa. Le sue rivelazioni, spesso ‘a puntate’, tenevano col fiato sospeso gli interessati: la sua tecnica era quella di lasciare intendere che sapeva di più, che aveva altre prove Era un giornalista molto curioso e capace, ma nell’estorcere informazioni, non nell’estorcere denaro. Con i pregi e i difetti insiti nella natura umana è stato un giornalista appassionato, antagonista alla sinistra, ma non per questo indulgente alla sua parte. Non c’è dubbio che la causale del delitto vada ricercata nell’attività professionale di Pecorelli e non in vicende della sua vita privata o in fatti estemporanei.”

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Il direttore di Op sembra avere una missione: attaccare Giulio Andreotti. Con feroce sarcasmo il giornalista lo critica per i rapporti con Salvo Lima e gli affibbia soprannomi, alcuni dei quali poi entrati nel comune gergo giornalistico: Divin Giulio, Padrino, fino all’ ultimo, dispregiativo, Biscione. Tra gli altri obiettivi anche personaggi legati al gruppo di potere dell’onorevole Andreotti, come Claudio Vitalone, con il quale sembra aver ingaggiato una contesa personale.
Racconta Romolo Cardellini, caporedattore di OP: “Fino dal 1975 era Vito Miceli, capo del SID, a inviare quotidianamente le sue note velenose contro Gianadelio Maletti, capo dell’ufficioD, con il quale solo dopo il suo arresto, Mino stringerà amicizia. Questi generali per un motivo o per l’altro ce l’avevano con Andreotti, si sentivano usati e buttati via come un’amante tradita. E la loro rabbia trovava sfogo nei trafiletti di Mino.”
In una intervista pubblicata nel giugno 1993 dal Corriere della Sera, a firma di Paolo Graldi, l’avvocato Gianfranco Rosini rivela: “Ero andato a trovarlo poche ore prima che fosse ucciso. Mino mi aveva confidato che per circa due anni era stato una specie di segretario personale di Andreotti. Io dissi: ‘Un personaggio ambiguo questo Andreotti’. E lui rispose : ‘Uno dei grandi criminali della storia, sto approntando un fascicolo documentatissimo che svelerà chi è veramente Andreotti e quali e quanti siano i suoi crimini.’”
La mattina del 20 marzo Pecorelli incontra il PM Luciano Infelici. A lui rivela che ha tra le mani “materiale esplosivo” sul figlio di Francesco Arcaini direttore generale dell’Italcasse.
La Cassazione non ha condiviso la linea dei giudici di Perugia secondo i quali Andreotti negli anni Settanta aveva fatto arrivare alla Sir di Nino Rovelli finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto non solo dal ministero per gli Interventi straordinari per il Mezzogiorno da lui diretto, ma anche dall’istituto di credito Italcasse, poi fallito. In cambio aveva ricevuto da Rovelli cospicue tangenti pagate tramite assegni circolari intestati a nomi di fantasia. I titoli di credito erano poi finiti in mano a esponenti della banda della Magliana, a boss mafiosi legati a Tano Badalamenti, e al patron del Cantagiro Ezio Radaelli. Pecorelli, prima della sua morte, sta per pubblicare sulla sua rivista Op le fotocopie delle matrici degli assegni in un servizio dal titolo Gli assegni del presidente. Non fa in tempo.
Pecorelli è un uomo solo. Così la sorella Rosita ricorda il loro ultimo incontro: “Un mese prima di essere ucciso, mi pregò di andare a casa sua. Era distrutto: mi disse che non aveva più una famiglia, che faceva tutto da solo, che il mal di testa lo torturava. Piangeva come un bambino. A me sembrò anche molto spaventato.”
Dal marzo 1978 “Op” diventa settimanale. Pecorelli annuncia che il 15 Marzo 1978 accadrà qualcosa di gravissimo in Italia. Sbaglia di un giorno. Il 16 marzo, Moro viene sequestrato e la sua scorta trucidata. In seguito si saprà che le BR avevano inizialmente deciso di rapire Moro il 15 marzo. Il giornale pubblica tre lettere inedite del leader Dc, spedite a familiari e amici. Lo stesso Pecorelli profetizza la morte del generale Dalla Chiesa. Secondo Pecorelli, durante il sequestro Moro, Dalla Chiesa aveva informato il ministro dell’interno Cossiga dell’ubicazione del covo in cui era detenuto. Ma Cossiga non aveva potuto far nulla. Il generale Amen, sostiene Pecorelli nel 1978, verrà ucciso.
Il giornalista indaga sui segreti del delitto Moro. Nel gennaio del 1979 va al carcere di Cuneo proprio con Dalla Chiesa. Cercano il Memoriale di Aldo Moro. È vicino alla scoperta di inquietanti verità. Teme per la sua stessa vita. È minacciato. Nel giornale compare una nota “a futura memoria”: “I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche solo un capello”.
Di certo Pecorelli sa molte cose sul delitto Moro. Dal giornale lancia ambigui messaggi. Nei numero 27, 28, 29 di “Op”, ottobre 1978, il giornalista scrive: “Non credo all’autenticità del memoriale, o alla sua integrità, e alle banalità che sono state riportate alla luce. Moro non può aver detto quelle cose e solo quelle cose arcinote; non era stupido, dicendo solo quelle cose, sapeva che non sarebbe uscito vivo dalla prigione. Quindi c’è dell’altro. Così ora sappiamo che ci sono memoriali falsi e memoriali veri. Questo qui diffuso è anche mal confezionato. Ma con l’uso politico di quello vero, e anche con il ritrovamento di alcuni nastri magnetici dove “parla” a viva voce Moro, ci sarà il gioco al massacro. Inizieranno i ricatti. Con questa parte recuperata, la bomba Moro non è scoppiata come molti si aspettavano. Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato.”
Nel gennaio del 1979 Pecorelli annuncia nuove rivelazioni sul delitto Moro: «Torneremo a parlare del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle Br, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse…». Rimane un annuncio. Il 20 marzo 1979 il direttore di Op viene assassinato.

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