La guerra silenziosa del petrolio

nov 21, 2015 0 comments
Di Gerardo Coco
Nel giugno 2014 il prezzo del petrolio raggiungeva 106 dollari al barile. Esattamente un anno dopo, nel 2015 alla stessa epoca, precipitava a 40 dollari e attualmente è appena al di sopra di questo livello. Una drammatica discesa che ha messo in difficoltà tutti i produttori di petrolio: il cartello dell’Opec, le maggiori compagnie americane e i produttori di shale oil, i cosiddetti frackers. Perché il prezzo del greggio è sceso tanto rapidamente? E come evolverà la situazione?
Innanzi tutto una breve retrospettiva sulla dinamica del prezzo del greggio. Come mai nel periodo 2008-2014 con una domanda mondiale stagnante si è mantenuto sopra i 100 dollari (con punte fino a 144 dollari) e poi improvviso è precipitato a 40 dollari? Il motivo ovviamente non ha nulla a che fare con i fondamentali della materia prima, ma con la finanziarizzazione dell’economia. Il greggio non ancora estratto veniva infatti usato come collaterale di trilioni di dollari di obbligazioni spazzatura e derivati vari. In altre parole, si sviluppava una “domanda finanziaria” di greggio che produceva lo stesso effetto di un aumento di domanda reale. Anche il petrolio negli ultimi anni è stato guidato da quella stessa dinamica finanziaria e monetaria che ha prodotto bolle in tutti i settori trasformando anche il greggio in subprime. Il fattore che invece, alla fine del 2014, ne faceva crollare il prezzo era ancora lo stesso ma di segno opposto: le vendite di futures della materia prima, ordite, molto probabilmente, dal governo americano, per colpire la Russia, uno dei maggiori produttori di petrolio, per il suo intervento in Ucraina. Le grandi banche internazionali ovviamente facendo da tramite. Certo è difficile provarlo, ma oscillazioni di tale entità non hanno altra spiegazione. Il mercato dei derivati è talmente immenso (un multiplo del Pil mondiale) opaco, complicato e privo di controlli da consentire impunità e anonimato agli autori di ogni tipo di manipolazione. Questo è il motivo per cui i governi e banche centrali non hanno mai regolamentato il mercato di queste armi finanziarie.
Oggi, alla base del crollo del prezzo del greggio ci sono ovviamente fattori economici: l’eccesso di offerta della materia prima a fronte del rallentamento dell’economia mondiale e il valore del dollaro. L’impennata della valuta americana è stata speculare alla diminuzione del prezzo del greggio. Poiché il petrolio è quotato in questa valuta, i Paesi di altre aree monetarie, per acquistarlo, devono prima comprare dollari che rincarando aumentano il prezzo del greggio in termini di euro, yen o rubli. Aumentando il prezzo, la domanda cala, i produttori hanno un surplus e per ridurlo devono tagliare il prezzo. In tempi di ristagno economico dovrebbero pertanto ridurre la produzione. Ma questo non è avvenuto, anzi la produzione del greggio è aumentata e continuerà a aumentare nonostante la recessione. Per qual motivo? Perché l’Arabia saudita ha elaborato un piano per eliminare i produttori di shale oil e riguadagnare le quote di mercato perdute.
Grazie ai frackers gli Usa sono arrivati a produrre quasi 9 milioni di barili al giorno, quantità mai raggiunta negli ultimi 30 anni. L’idea era di superare entro il 2020 l’Arabia Saudita, il maggior produttore mondiale (in un articolo di due anni fa, L’ultimo miraggio energetico, spiegavamo l’assurdità di tale proposito). L’industria del fracking aveva basato le stime di produzione su un prezzo del greggio compreso tra i 75-130 dollari al barile e su questa base investiva nello sviluppo dei pozzi non convenzionali oltre 5 trilioni di dollari, ricorrendo ad una elevatissima leva finanziaria facilitata da tassi di interesse irrisori. Ora a un prezzo intorno a 40 dollari, ben al di sotto del punto di pareggio di 70 dollari, i frackers producono solo grandi perdite. Nel settore petrolifero il prezzo remunerativo è infatti al di sopra di 100 dollari. Tuttavia nonostante le perdite hanno continuato a produrre erodendo le quote di mercato dei paesi membri dell’Opec come Venezuela, Nigeria, Libia, i quali pure loro, per prosperare, devono vendere a un prezzo superiore a 100 dollari. Si tratta infatti di economie non diversificate che importano tutto ciò di cui necessitano esportando greggio. Ben diversa è la situazione dell’Arabia Saudita, il primo produttore mondiale con le maggiori riserve, i più bassi costi di produzione e che in teoria, potrebbe sopravvivere vendendo greggio anche a 10 dollari al barile. Ovviamente non venderebbe mai a questo prezzo perché, come gli altri membri del cartello, necessita di un reddito per importare e sostenere una popolazione crescente, ma la sua posizione di market maker le permette gran flessibilità nel fissare il prezzo del greggio e regolarne il ritmo di estrazione. Nessun altro produttore potrebbe fare altrettanto senza esaurire le riserve o fare bancarotta. Quando il prezzo è sceso a 40 dollari mentre i frackers hanno mantenuto la produzione solo per pagare i debiti, l’Arabia Saudita, invece, l’ha addirittura aumentata al solo scopo di eliminarli dal mercato.
Sa bene che i frackers non sono più in grado di finanziare la perforazione di nuovi pozzi e quelli esistenti si esauriscono molto più rapidamente di quelli convenzionali. E manovrerà la produzione per raggiungere un prezzo compreso nella fascia di 50/60 dollari che per lei è ancora remunerativa. Da un lato sa che il prezzo del greggio non può diminuire al di sotto di 40 dollari (l’agosto scorso, dopo aver toccato una punta al ribasso a 38 dollari è subito risalito); dall’altro, si opporrà a un prezzo al di sopra gli 80 dollari che ridarebbe fiato ai frackers, i quali a livello di 50/60 dollari sono messi fuori gioco. Dopo aver raggiunto questo obiettivo l’Arabia Saudita potrà poi rialzare i prezzi e non preoccuparsi più della quota di mercato. Questa strategia giova anche ai grandi produttori Usa non convenzionali come Exxon e Chevron che hanno strette relazioni con Saudi Aramco, la compagnia nazionale saudita e per le quali, in prospettiva, si presenta l’opportunità di rilevare i frackers a prezzi fallimentari.
In conclusione, nel periodo 2016/2017 dovremmo aspettarci un prezzo del petrolio attorno a 50/60 dollari e un’ondata di default dei produttori non convenzionali con l’azzeramento dei bond energetici da loro emessi. Naturalmente questa ipotesi è plausibile solo se la situazione geopolitica non precipita: il 30-50 per cento della fornitura mondiale di petrolio passa attraverso le rotte marittime del Medio Oriente e il prezzo del petrolio potrebbe salire alle stelle solo in caso di guerra. L’ultima speranza di sopravvivenza che, ormai, rimane ai frackers.

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