In Europa la fabbrica della cittadinanza: così funziona il business dei passaporti comprati

ago 21, 2016 0 comments



DI ROBERTO SCARCELLA

Ungheria e Bulgaria, insieme a Belgio, Grecia, Austria, Malta, Portogallo, Spagna, Irlanda, Lettonia e Cipro sono tra i Paesi dell’Ue che, di fatto, mettono in vendita la cittadinanza europea. Ci sarebbe anche il Regno Unito non fosse che dal referendum sulla Brexit in poi sono i britannici ad andare in giro a questuare un secondo passaporto comunitario. Per anni l’Europa si era tenuta fuori da questo mercimonio. Vendere la cittadinanza era una prerogativa di staterelli caraibici come Antigua e Barbuda, St. Kitts and Nevis e Dominica. Nelle loro banche entravano assegni a cinque zeri che, miracolosamente, dopo un passaggio negli uffici pubblici, si trasformavano in passaporti del Commonwealth: non nobili quanto quelli controfirmati da Londra, ma con privilegi figli degli stretti rapporti con la Corona britannica. A St. Kitts and Nevis, due isolotti delle Antille grandi insieme quanto l’isola d’Elba, sono stati i primi a inventarsi questa formula, nel 1984. Erano diventati Stato indipendente appena un anno prima. E i passaporti si rivelarono un modo per fare cassa. Per anni, i ricchi dei Paesi con relazioni diplomatiche limitate non potevano far altro che volgere lo sguardo ai Caraibi per comprare una seconda nazionalità che consentisse maggiore libertà sociale, fiscale, economica. 

Dopo la crisi dei subprime, nel 2008, diversi Paesi europei hanno cominciato a riflettere su come racimolare denaro fresco e attrarre investitori extracomunitari battendo nuove strade, sfruttando i buchi nelle leggi dei controllori di Bruxelles. Anche a queste latitudini a fare da apripista piccoli Stati come Cipro e Malta, con i conti in rosso e l’acqua alla gola. Tutto filava liscio a Cipro fino a che Nicosia si trovò costretta a revocare la cittadinanza al siriano Rami Makhlouf, uomo dalla fedina penale immacolata nonché presidente di un’azienda petrolifera e di Syriatel, la più grande compagnia telefonica del suo Paese. Ma Rami Makhlouf era il cugino, nonché cassiere del presidente siriano Assad: a nulla servirono i milioni depositati nelle banche locali. Dopo quell’incidente, a Nicosia hanno rivisto i loro criteri di selezione, oggi più stringenti. Ma resta il fatto che per diventare cittadino cipriota, e quindi europeo, in tre-sei mesi basta esser ricchi e investire tra i 3 e i 5 milioni in aziende o immobili. Non c’è obbligo di residenza, né è richiesto un colloquio preliminare.  

Un business senza barriere  
Di fatto a Cipro si può diventare cittadini europei per corrispondenza, come a un club del libro. Malta, invece, ha fiutato il business nell’estate del 2013. Il partito laburista dell’isola aveva appena preso il potere e nel programma elettorale non vi erano accenni alla possibilità di vendere passaporti a facoltosi extracomunitari. Da un giorno all’altro arrivò l’annuncio del premier Joseph Muscat: con 650 mila euro di investimenti si poteva ottenere la cittadinanza europea in pochi mesi. La proposta spiazzò l’opinione pubblica. «Nello stesso momento in cui si studiava la vendita dei passaporti ai ricchi, il governo respingeva in Libia un gruppo di rifugiati esausti che a malapena si reggeva in piedi», osserva James Azzopardi, ministro ombra per i Diritti del partito conservatore maltese: «C’era una guerra in corso, eppure il governo se ne infischiò dei diritti umani. Solo dopo 11 ore un intervento della Corte di Strasburgo riuscì a fermare gli aerei che rimpatriavano profughi. Abbiamo un governo che premia i benestanti e umilia i poveri, che prostituisce la cittadinanza maltese e, indirettamente, quella europea». Situazioni simili si sono verificate in Grecia e Lettonia. Due dei Paesi più a buon mercato se si tratta di comprare passaporti: ad Atene bisogna investire 250 mila euro in immobili, nella Repubblica baltica ne bastano 150 mila.  

Scorciatoie anti-controlli  
La Lettonia è lo stesso Paese che progetta un muro di 90 chilometri al confine con la Russia per frenare l’avanzata dei migranti dall’Asia centrale. Quest’anno il governo di Riga arriverà a spendere 3 milioni di euro per la difesa del confine orientale. Nel 2015 il budget era 500 mila euro. Contro i passaporti facili ha avviato una battaglia nel 2014 Viviane Reding, allora commissario europeo alla Giustizia. «La consegna di un passaporto dovrebbe dipendere da genuini legami di una persona con un Paese, non dalla grandezza del suo portafoglio- afferma. La cittadinanza è uno degli elementi fondanti dell’Europa e non può essere presa alla leggera. Non deve essere in vendita». In realtà lo è eccome. 

Così da due anni sono in corso negoziati Ue con gli Stati dal passaporto facile. Tempi e modi sono in parte cambiati. Malta è passata dal chiedere 650 mila euro e poco altro a quasi raddoppiare la cifra, pretendere investimenti sul territorio e colloqui più approfonditi. Basta pagare e avere qualche mese di pazienza, la ricompensa sarà una delle nazionalità più ambite del pianeta, che permette l’ingresso senza visto in 168 Paesi, favorisce i contatti e moltiplica le garanzie rispetto a un passaporto siriano, russo o cinese. Paesi come Portogallo, Spagna e Irlanda, che si stavano affacciando in questo mercato senza paracadute, «alla cipriota», rilasciano la residenza in tempi rapidi e hanno la manica larga quando si tratta di distribuire la «golden visa» (una sorta di passepartout il cui nome è già tutto un programma), ma fanno passare anche dieci anni prima di consegnare un vero passaporto. Bruxelles ha provato ad arginare l’invasione, ma non ha molte armi per combattere.  

«Non esiste una normativa o una direttiva europea che regoli il rilascio dei passaporti, quindi di fatto ogni Stato membro è libero di muoversi secondo i propri criteri senza rendere conto a nessuno - spiega l’avvocato Giuseppe Giacomini, esperto di diritto comunitario -. Ciò crea dei problemi nella libera circolazione delle persone, perché ci si trova a che fare con cittadini diventati europei con criteri quantomeno discutibili». Questione di fondo. «L’Europa dovrebbe individuare criteri che definiscano il rilascio dei passaporti ottenuti in cambio di denaro e investimenti, così come sono stati fissati parametri per i migranti col Trattato di Dublino - aggiunge -. Se lo si è fatto “dal basso”, si può farlo anche “dall’alto”, anche se alto e basso significa poco: uno può avere molti soldi ma non è detto che sia una persona affidabile». Tra chi valuta gli aspiranti europei dal conto in banca c’è Henley & Partners, società con 25 uffici nel mondo e quartier generale nell’Isola di Jersey, nella Manica, paradiso fiscale dal volto pulito, con migliaia di società off-shore registrate.  

Offerte su misura  
Il responsabile della filiale maltese, Stuart MacFeeters, ribatte descrivendo come in realtà la faccenda dei passaporti in vendita non sia semplice come comprare un costosissimo pollo al supermercato. «Siamo cauti, attenti e non prendiamo nessun rischio - assicura -. Quando valutiamo i candidati, guardiamo tutto, dal conto in banca alla fedina penale. Ci muoviamo all’interno di contratti e accordi blindati». Le regole per ottenere la cittadinanza sono più o meno stringenti, a seconda del Paese, ma non è solo una questione di limitazioni, anche di opportunità. «Alcuni nostri clienti possono considerare “su misura” il programma maltese, altri possono preferire quel che propone Cipro, la Svizzera o il Portogallo» argomenta.  

Per MacFeeters ci sarebbe spazio anche per l’Italia, che - come Francia e Germania - ha deciso di tenere i suoi passaporti sottochiave. «L’Italia ha forte capacità d’attrazione. Beneficerebbe di un programma di questo tipo, penso ad esempio ai tanti immobili di pregio - evidenzia -. Potrebbe essere anche un modo per far diventare comunitari i calciatori. Le società spendono milioni in acquisti, commissioni, procuratori; sborsando qualcosa in più, un brasiliano o un argentino potrebbero diventare europei in fretta». E senza il ricorso ad avi inesistenti come accadde per i passaporti falsi dei calciatori di Serie A (Recoba, Veron, Fabio Junior, Dida). Insomma, bastano un paio di firme, uno Stato consenziente e una prezzatrice, come diceva Reding. Sono passati due anni. Il commissario Ue non è più al suo posto. Gli Stati europei con la prezzatrice erano un paio, sono diventati dodici e il business è in crescita. 

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