Geopolitica dei viaggi di Trump

mag 8, 2017 0 comments
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Di Andrea Muratore

La Casa Bianca ha recentemente ufficializzato le prime uscite internazionali del Presidente Donald Trump, il quale visiterà Arabia SauditaIsraele e Città del Vaticano nel mese di maggio prima di presenziare al summit NATO di Bruxelles del 25 maggio e al vertice del G7 di Taormina del 26 maggio. Come è tradizione per i presidenti statunitensi di nuovo insediamento, Trump ha atteso a lungo prima di pianificare le sue prime uscite all’estero, delegando a più riprese al suo vice Mike Pence la rappresentanza degli Stati Uniti e preferendo ospitare diversi capi di Stato e di governo alla Casa Bianca, da Theresa May al leader palestinese Mahmoud Abbas. Al contrario dei suoi predecessori, Barack Obama e George W. Bush, Trump non ha inserito i “vicini di casa” degli Stati Uniti, Canada e Messico, nella lista dei Paesi da visitare nei primi mesi del suo mandato, fatto che potrebbe essere dovuto alle relazioni non ottimali intercorrenti tra l’inquilino della Casa Bianca e i suoi omologhi di oltre confine, Enrique Peña Nieto e Justin Trudeau.

Israele, Arabia Saudita e Città del Vaticano sono mete scelte dalla leadership di Washington in maniera tale da poter trasmettere un preciso messaggio circa i nuovi indirizzi geopolitici del Paese e l’evoluzione delle sue realtà e dinamiche di potere interne. In primo luogo, incontrandosi con i partner mediorientali Trump punta a rivitalizzare la storica alleanza di Washington con Tel Aviv e Riyadh dopo le flessioni dell’era Obama e a rilanciare la nuova visione geopolitica di Washington nella regione: inserendo come prime mete Arabia Saudita e Israele Trump rilancia la strategia anti-iraniana, puntando a mettere sotto pressione Teheran in una fase molto delicata in cui la Repubblica Islamica è attesa da un appuntamento elettorale importantissimo per il suo futuro e dando credito ad alcuni dei suoi top Advisor, come il Segretario della Difesa James Mattis, che proprio nell’Iran vedono la più grande minaccia agli interessi statunitensi nell’area mediorientale.
Da un lato Trump sembra aver dimenticato definitivamente i pesanti attacchi lanciati contro l’Arabia Saudita in campagna elettorale, nel corso della quale accusò a più riprese la sua sfidante Hillary Clinton per i suoi legami con Riyadh e attaccò Casa Saud ritenendola responsabile per la strage delle Torri Gemelle, mentre dall’altro l’importanza pivotale di Israele per le sue politiche in campo internazionale non è mai stata un mistero. Un sondaggio condotto dal Times of Israel ha rivelato che circa l’83% della popolazione dello Stato sionista ritiene Trump un Presidente fortemente amico di Israele; ulteriori avvicinamenti tra Washington e Tel Aviv sono favoriti dal ruolo di primaria importanza assunto da Jared Kushner, genero del presidente, in seno all’amministrazione. In ogni caso, Trump si recherà in Israele spinto non solo dalla volontà di rafforzare il legame tra Washington e Tel Aviv e il rapporto personale con Benjamin Netanyahu ma anche dal desiderio di dare finalmente il via alla sua azione personale per la mediazione della questione palestinese, cosa che potrebbe portare la sua controparte a storcere il naso, dato che gli equilibri di potere in seno al governo israeliano e al suo Parlamento, lo Knesset, non favoriscono sicuramente passi decisi in questa direzione.
L’incontro di Trump con Papa Francesco, invece, giungerà dopo lunghi mesi di speculazioni circa la sua effettiva realizzabilità: le visioni antitetiche dei due su numerose questioni, tuttavia, non sminuiscono l’importanza della relazione tra gli Stati Uniti e il Vaticano, accresciutasi negli ultimi anni sulla scia della mediazione condotta dalla Santa Sede nel processo di distensione tra la superpotenza americana e Cuba, nei cui confronti Trump si è definito oltremodo scettico. In questo senso, il viaggio di Trump in Vaticano sarà l’occasione per lanciare un importante messaggio alla politica interna statunitense. Nonostante lo zoccolo duro dell’elettorato di Trump sia stato costituito dalle roccaforti conservatrici, soprattutto evangeliche, dell’America “profonda”, nei flyover States come il Montana e il Mississippi, l’importanza dei cattolici nel Paese va via via accrescendosi e, inoltre, sussiste per il Presidente la necessità di apparire come figura unificatrice dopo che il voto di novembre ha evidenziato forti spaccature nella società americana. I cattolici rappresentano, come riportato da Manlio Giordano sul numero di Limes di dicembre 2016, da un quinto a un terzo della popolazione statunitense, e hanno da tempo acquisito un ruolo crescente negli assetti di potere federali, tanto che lo stesso Trump ha scelto un loro rappresentante, Mike Pence, quale candidato alla vicepresidenza. Inoltre, l’influenza della Chiesa sul suolo americano è molto marcata sotto il profilo dell’erogazione di servizi sociali, redistributivi ed educazionali, la cui offerta è seconda solo a quella delle autorità federali. Giordano ha riportato infatti alcune cifre eloquenti sui servizi gestiti dalle istituzioni cattoliche a stelle e strisce: “5.368 scuole elementari, 1.200 scuole superiori e 225 tra università e college […] per un totale di circa 3,5 milioni di studenti e 200.000 tra insegnanti e professori. […] Una rete di 549 ospedali con 88,8 milioni di pazienti”. La Chiesa Cattolica è a tutti gli effetti una potenza con cui Trump deve relazionarsi nel migliore dei modi per poter condurre la sua agenda politica: l’incontro in Vaticano con Francesco, per questo motivo, assumerà un’importanza capitale per orientare i suoi rapporti con una fetta tanto consistente della società americana.

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